Annotazioni quasi personali

L’incontro con i monaci del Monastero di S.Benedetto a Norcia, avvenuto nel 2009 quasi ‘casualmente’ e per una ‘fortunata’ coincidenza di fattori, ha spalancato davanti a me un tesoro di cui intuivo l’esistenza, ma che non immaginavo essere così ricco e profondo: l’Ufficio Divino, preghiera e rito, canto e vita.

L’aperta accoglienza dei benedettini di Norcia, una giovane comunità monastica in forte crescita, innamorata della propria Regola e delle celebrazioni liturgiche secondo i riti antichi (sia nella Messa conventuale che nell’Ufficio Divino) mi ha permesso, dopo tre anni di intensa dedizione al canto gregoriano nel repertorio della Messa, di ‘iniziarmi’ al canto che scandisce le ore della giornata e della vita, di scoprirne la complessità e varietà, di gustarne la perfetta fusione con la voce umana, in un processo ancora in corso di risveglio, adattamento, ricerca, stupore, entusiasmo, anelito e fiducia verso ciò che ancora verrà.

Ciò che finora ho ricevuto trabocca talmente dentro di me da desiderare intensamente condividere quanto appreso con tutti coloro che sentono essere attratti dal canto e da questa antica forma di preghiera, offrendo un percorso di crescita e canto comune nel quale gustare insieme un repertorio e un rito che è nato per essere gioiosamente celebrato insieme.

Uno dei primissimi aspetti che mi è apparso con evidenza al primo incontro con i monaci è che il cammino spirituale non è separabile dall’allentamento e dallo scioglimento delle tensioni nella laringe: le lunghe ore di canto dell’Ufficio divino, della Messa conventuale, ma anche le letture cantate durante i pasti, durante l’ufficio del capitolo e in tutte le altre occasioni ufficiali delle comunità monastiche cristiane – e, suppongo, anche di altre religioni – richiedono alla laringe l’abbandono della propria morsa interna ed esterna per affidarsi alla vibrazione ‘perpetua’. Le lunghe ore di preghiera cantata sono il miglior antidoto alle molteplici tentazioni a cui è sottoposto il monaco e di cui parlano diffusamente i padri del deserto, i dottori della Chiesa, ma anche tutti i mistici: tutte le tentazioni e i dèmoni che ‘assalgono’ il monaco andando ad abitare in ben precisi organi del corpo, tra i quali quelli fonatori sono grandemente privilegiati, vengono ripetutamente ‘scacciati’, o perlomeno ‘tenuti a bada’ dalla preghiera salmodica e dalle letture cantate.

Del coro dei monaci di Norcia mi ha colpito la qualità del suono vocale e del canto d’insieme: nonostante essi non sembrino aver ricevuto un’educazione vocale specifica, le loro voci hanno una mirabile capacità di fondersi l’una nell’altra attraverso la vibrazione; sembra che sia il canto stesso dei salmi e la lunga pratica del recto tono ad educare la voce con una disciplina implicita: è il lungo canto ininterrotto intorno ad un’unica nota, o con piccolissime variazioni melodiche nelle interpunzioni e nelle cadenze, a guidare l’auto-organizzazione del tratto vocale, della laringe e dell’apparato respiratorio.

Nel canto dell’Ufficio il pensiero non può disperdersi, la fluidità del canto verrebbe interrotta e incespicherebbe. L’essere presenti in ogni istante, senza contemporaneamente avere il tempo di fissare la mente su nulla è una sfida continua all’emisfero sinistro e al suo bisogno di controllare, decidere, progettare, rimuginare.

Nella lunga salmodia quotidiana viene nutrito lo spirito e guidata l’anima: in essa non vi è spazio per l’esibizione o l’ostentazione, ma nemmeno per il nascondimento, la ritrosia, il trattenere o un falso uniformarsi all’omogeneità del coro. Non vi è spazio per la pesantezza o il lamento, per l’affettazione o il sentimentalismo; non vi è spazio per un’intenzione esecutiva o interpretativa che proietta sulla musica e sul testo l’Io personale dell’esecutore oscurante la Parola Sacra.

Nel Monastero di S.Benedetto a Norcia viene seguito l’antico rito liturgico monastico benedettino, sia nella celebrazione della Santa Messa, che dell’Ufficio Divino. Il fascino che emana da questo rito va ben oltre un certo fascino dell’ “esotico” o dell’inusuale, perché in esso si coglie immediatamente il prevalere della Forma sul formalismo, una forma che, pur formulata e tramandata da uomini, è intrisa in ogni parola, in ogni gesto e in ogni silenzio, di un’intensa relazione personale e comunitaria con Dio. All’interno di questa forma rituale così antica, eppur vissuta intensamente nel momento presente, l’uomo si spoglia delle proprie ‘personalizzazioni’ e si affida al dialogo con un Dio che gli parla innanzitutto tramite il silenzio.

Il canto rituale passa dalla semplicità più disarmante del recto tono alla ricchezza più magnificente degli jubili, comprendendo ogni possibile gradazione tra questi due estremi. La ricchezza che le melodie acquistano nelle solennità, con lunghe cadenze ornate o con melismi arditissimi e interminabili, sono elementi di arricchimento vocale e spirituale e sostengono lo slancio dell’anima che loda, ringrazia, invoca e gioisce. È come se anche alla voce, alla laringe e a tutto il corpo, dopo l’ “astinenza” del recto tono, venisse concessa la beatitudine di un ‘cibo’ sonoro sontuoso e prelibato, che anticipa sulla terra lo splendore della gloria dei cieli.

Quest’alternanza tra semplicità e sontuosità non punteggia solo l’arco dell’anno, nel quale si alternano periodi di severità e sobrietà melodica alternati a feste in cui la voce si dispiega in mille volute, ma è anche nell’arco stesso di una giornata, con il passare dalla semplicità del Mattutino alla sontuosità delle Lodi, per ritornare ad una nuova ‘astinenza’ nel recto tono dell’Ora Prima e quindi crescere gradualmente in varietà all’Ora Terza, Sesta e Nona, fino al nuovo rifiorire dei Vespri e il dolce contenersi della Compieta che prepara la notte e il sonno.

Il rito ‘sacralizza’ gli oggetti e le relazioni, siano oggetti materiali, o pensieri e relazioni umane; nel rito si ritrova una sintesi di tutte le azioni compiute nella vita quotidiana, nella loro forma ‘sacra’: il camminare, il muoversi, il parlare, l’agire, il pensare ricevono un orientamento chiaro e luminoso. Attraverso la pratica rituale ogni azione o pensiero diviene sovrapersonale, si impregna del Divino e il monaco “viene mosso, viene agito, viene parlato e viene pensato”. Ciò non significa la profonda e costante consapevolezza di ogni singolo movimento o pensiero, ma uno stato nel quale il monaco si sente costantemente ed esclusivamente uno strumento sacro nelle mani di Dio.

A Norcia sono stata affascinata dall’intensa gestualità del coro dei monaci e dall’antico cerimoniale: nulla è lasciato al caso, ciascun gesto racchiude in sé un profondo significato simbolico, e tutti i gesti, la cui origine affonda ai primordi della cristianità e, ancor prima, ai riti ebraici, portano in sé la memoria di un tempo nel quale l’uomo si sentiva fisicamente unito a Dio, e la fede non era un fatto mentale, ma scaturiva e veniva sostenuta da sensazioni fini e profonde nel corpo. Il linguaggio dei gesti nei riti parla dunque al nostro inconscio e predispone il corpo ad uno stato interiore; il continuo passare da un gesto all’altro e la composta immobilità tra essi accompagna il corpo a passare attraverso diversi stati interiori senza l’ausilio della mente o di una volontà conscia, che è allora libera di vivere in simbiosi con lo stato del corpo senza doversi occupare di crearlo.

Anche la stessa gestualità rituale, così come la salmodia, ha un influsso positivo sulle funzioni vocali e, anche se inconsciamente, accompagna e guida la vocalità del monaco. Quasi tutti i gesti rituali monastici trovano infatti un parallelo nella pedagogia della funzionalità vocale: essi sono gesti che vengono proposti al cantante o all’attore come stimolatori delle funzioni corporee e vocali, indipendentemente dal loro significato spirituale.

Le diverse inclinazioni del corpo che si inchina, lo sdraiarsi a terra proni o in venia, il battersi il petto, il congiungere le mani, il segno della croce, lo stare in ginocchio, l’indossare il cappuccio, le palme delle mani tese e rivolte in avanti, tutti i movimenti corali e di gruppo e tanti altri piccoli o grandi gesti, talvolta appena accennati, spesso prolungati nel tempo, stimolano costantemente il corpo a farsi tutt’uno con la voce e la preghiera, così che la vibrazione che nasce nel suono trova un’immediata risonanza e amplificazione nel corpo e viceversa. Preghiera diventa dunque un corpo e una voce che risuonano in sintonia con l’anima.

Tutto nella vita monastica conduce ad un’unica meta: l’unità, come manifestazione tangibile e visibile sulla terra dell’unità con l’Assoluto che è Uno. Ogni atto, gesto, pensiero, preghiera o lavoro comunitario del monaco ha come riferimento la creazione dell’unità, perché nessuno può essere e dirsi unito all’Uno se non è unito agli altri uomini. Nel termine stesso ‘comunità’ è contenuto il principio dell’unità e dell’essere uno in molti. Anche nel cantare in coro dunque l’unità è il bene più prezioso e la preghiera che nasce da un coro unito ha una forza enorme rispetto ad un coro disgregato o nel quale emergono le singole individualità.

La calma motoria e la serenità interiore sono segnali inequivocabili dell’unità raggiunta all’interno di sé, frutto di una lunga disciplina che non blocca l’Essere, ma ne incanala l’energia nelle lunghe ore di canto e nella complessità dei gesti che compongono il rituale. L’energia del movimento non è repressa, ma orientata in una serie di gesti dall’elevato valore simbolico, spirituale, energetico e vibrazionale. Anche il canto scaturisce così dallo stesso centro intorno al quale si raccoglie il corpo e la sua materia: l’irradiazione del suono della voce e l’irradiazione che scaturisce dai movimenti divengono una cosa sola.

Nella vita e nella liturgia monastica, nell’apparente contrasto con le lunghe ore dedicate al canto, emerge fragoroso il valore del silenzio: i lunghi intensi silenzi durante la Messa conventuale, il lungo silenzio nell’adorazione eucaristica ai Vespri della Domenica, il silenzio alle preghiere recitate mentalmente, il silenzio prima dell’inizio di ogni Ora. Là dove le parole e il suono non sono più sufficienti, giunge il silenzio, perché il silenzio nutre le sensazioni, nutre i pensieri non verbali, nutre il contatto con Dio non mediato dall’intelletto che ragiona. Il silenzio sta all’immobilità del corpo così come il canto sta alla sua gestualità; sono due coppie che si nutrono a vicenda e sono due diverse manifestazioni della stessa natura – essere e agire – attraverso le quali si svolge la nostra vita sulla terra e la nostra relazione con il Divino.

L’Ufficio Divino Monastico