Alcune riflessioni su un’esperienza personale

Il 1988, esattamente vent’anni fa, fu un anno importante della mia vita; ne accenno unicamente perché in quell’anno videro la luce esperienze che la trasformarono profondamente negli anni successivi, estendendo la loro fecondità fino ad oggi. Nel marzo del 1988 morì improvvisamente, a soli 52 anni, mio padre, uomo mite, buono e giusto, dotato di una profonda e umile fede, la cui santità irradiava su coloro che lo incontravano e a cui devo molti eventi miracolosi che hanno benedetto la mia e altrui vita dopo la sua morte. Nel luglio dello stesso anno mi iscrissi ‘tiepidamente’ ai corsi di canto gregoriano di Cremona; avevo conseguito da un anno il diploma di musica corale e direzione di coro e ritenevo allora che fosse un dovere di ogni musicista, e a maggior ragione di un direttore di coro, conoscere le fonti della musica occidentale, anche se ritenevo il canto gregoriano una sicura ‘barba’; non vi era allora nessuna altra motivazione cosciente. Dovetti ben presto ricredermi: grazie al travolgente entusiasmo e coinvolgimento di insegnanti quali Nino Albarosa, Johannes Berchmans Goeschl, Luigi Agustoni e altri conobbi un mondo totalmente inaspettato che continuò ad attrarmi a Cremona per ben altri tre anni, sia d’estate che per alcuni week-ends invernali, travasandosi nel 1990 nella costituzione del Gruppo Vocale Femminile NOVA CANTICA e nel 1991 nell’omonima associazione. Nel novembre del 1988 conobbi Gisela Rohmert e l’Istituto di Lichtenberg: dopo dieci anni di infruttuose ricerche di qualcuno che potesse darmi una mano per uscire dall’ingarbugliato intrico delle mie corde vocali mi venne offerta una possibilità di lavoro sulla mia voce e su me stessa che diventò un vero e proprio faro per molti anni seguenti, salvando non solo le mie corde vocali dall’afonia, ma lasciandomi lentamente intravedere la grandiosità celata all’interno del suono e della voce, del corpo e dello spirito.

A mio padre, i cui primi atti ‘miracolosi’ sono stati proprio l’avermi guidato a Cremona e a Lichtenberg, agli insegnanti di canto gregoriano e a Gisela Rohmert dedico questo scritto, con la più sincera gratitudine per il seme che hanno gettato e che ho cercato di coltivare e custodire in questi venti anni. Accanto all’entusiasmo degli insegnanti e alla misteriosa attrazione suscitata in me dal canto gregoriano vivevo però allora una sofferenza la cui natura divenne via via sempre più nitida col passare degli anni: l’estrema cura e analisi nei confronti della semiologia gregoriana sembravano far scivolare sullo sfondo, quando non addirittura soffocare, la piena oscillazione del suono vocale, che risultava quasi sempre impoverito, limitato e compresso. La minuziosa attenzione al segno grafico sembrava irrigidire in un controllo innaturale la libera oscillazione delle corde vocali in tutta la loro potenzialità. L’apparente ‘pulizia’ del suono vocale che ne derivava lo limitava in realtà all’ambito del suono fondamentale e delle vocali, privandolo dell’energia sonora della brillantezza e del vibrato. Alcune voci maschili sembravano sfuggire in parte a tale ‘castrazione’, che nelle voci femminili era invece quasi la norma, elevata anzi spesso a stile esecutivo e a ricercatezza estetica. La natura del suono come vibrazione e la sua capacità di entrare in risonanza con il corpo di chi canta e di chi ascolta sembravano essere del tutto assenti. Tutto ciò veniva in realtà condiviso da larga parte dei praticanti di musica antica, dove sembrava imperare una falsa immagine di prassi esecutiva restrittiva e limitante, legata spesso ad uno studio musicologico e semiologico serio, ma privo di slancio vitale.

Conoscendo gradualmente in quegli anni la ricchezza del suono vocale e i misteri celati da esso nel nostro corpo, e continuando a venire attratta dal canto gregoriano, dalla monodia e dalle prime polifonie medievali, senza ancora comprenderne la natura profonda, e nonostante tutta la sofferenza che vi si accompagnava, incominciai a pormi delle domande, che si rivolsero inizialmente all’esterno di me:

  • Come potevano essere compatibili con un suono ridotto, quasi pigolato, le grandi architetture sacre medievali? Se le polifonie di Perotino venivano cantate a Notre Dame da pochi cantori, potevano essi esalare dei suoni privi di consistenza?
  • Poteva il suono emesso da una voce umana, per giungere a far vibrare le pietre, ignorare la vibrazione del proprio stesso corpo?
  • L’architettura sacra medievale non rispecchiava forse in molti casi la struttura e le proporzioni del corpo umano? Quale significato si celava per il suono in ciò?
  • Quali erano i parametri del suono umano che venivano esaltati acusticamente dalle architetture medievali? Non certo il suono fondamentale o le vocali, che venivano anzi ‘confuse’ dal notevole riverbero presente in quasi tutte le chiese, a meno che non si dilatasse la durata temporale dei brani rallentandoli oltre ogni ragionevole rispetto della musica stessa.
  • C’è una relazione tra l’acustica straordinaria di alcuni luoghi sacri e il principio delle proporzioni della sezione aurea con cui erano state costruite (vedi Bernardo di Chiaravalle e i cistercensi)?
  • Non è forse la sezione aurea la proporzione che si ritrova quasi ovunque all’interno del corpo umano? Tale proporzione non è forse quella esistente tra le tre formanti del cantante (a 3.000-5.000 e 8.000 Hz) scoperte da G.Rohmert?
  • L’energia sonora delle formanti del cantante, pura luce fatta suono, non è forse la corrispondente acustica del principio della luce che aveva orientato la costruzione delle chiese romaniche, stabilendo pochi selezionati punti di entrata dove la luce stessa potesse concentrarsi elevando così la propria energia, secondo un processo assolutamente simile a quello che nel suono porta allo sviluppo di formanti a partire da una massa indifferenziata di armonici?
  • Non sono proprio le formanti del cantante a venire particolarmente esaltate nel cantare in una chiesa costruita secondo le proporzioni di sezione aurea (vedi l’Abbazia di Le Thoronet in Provenza)?
  • Non era forse sempre il principio della luce che aveva orientato la costruzione delle cattedrali gotiche, ove la presenza di grandi vetrate colorate suggellavano il trionfo della luce che si manifesta nei sette colori dell’iride? O dove lo slancio verso l’alto di guglie, arcate, colonne, orienta lo sguardo e l’anima alla luce proveniente da Dio?
  • E non erano forse i vetrai medievali anche alchimisti, cioè signori del principio della trasformazione ed elevazione della materia verso frequenze più elevate?
  • A tutta questa profonda sapienza poteva rimanere estraneo il suono vocale che risuonava in quegli spazi?
  • Poteva essere un suono opaco, povero, limitato, fisso, privo di vitalità al proprio interno, a corrispondere a questa esplosione di magnificenza in campo architettonico?
  • Non corrisponderebbe forse tale suono al pregiudizio dominante fino a non molto tempo fa del Medioevo come periodo “buio”?

A queste domande e riflessioni, suscitate dai luoghi nei quali il gregoriano veniva cantato, se ne aggiungevano altre di natura fisica, musicale e spirituale:

  • Lo slancio degli jubili gregoriani poteva realizzarsi attraverso la costrizione a livello glottico e faringeo e un’elevata pressione aerea sottoglottica?
  • Il “liberaci dal male” è compatibile con lo sforzo fisico individuale e l’essere senza voce dopo una giornata di canto? (Non riesco a pensare che i monaci potessero e possano cantare tutt’oggi otto ore ogni giorno, se non grazie ad una funzione vocale equilibrata.)
  • “E il Verbo si fece carne” è compatibile con la sofferenza autoinflitta e la mortificazione della carne stessa tramite lo sforzo vocale e la costrizione laringea, mandibolare, del plesso solare, della lingua, ecc. ecc.?
  • Il canto gregoriano, nato nel contatto tra uomo e Dio, è compatibile con l’enorme pressione esercitata dalle moderne situazioni musicali ed esecutive?

‘Restaurare’ il canto gregoriano significa dare una risposta consapevole e umile a queste domande e significa quindi trarne tutte le conseguenze. L’allontanamento della religione e dell’uomo moderno dalla pratica del canto gregoriano, nonostante esso venga ancora indicato come il canto da privilegiare nella liturgia cattolica, è sicuramente poco da imputare al mutare dei tempi e delle mode. Certamente l’appesantimento che la quadratura della notazione neumatica vaticana ha provocato e la perdita di contatto con la freschezza, la libertà e la raffinatezza del segno neumatico sangallese o metense hanno inferto dei duri colpi, ma cause ancor più probabili sono la graduale perdita generale di contatto dell’uomo con sé stesso e con la fonte della vita, così come la perdita di contatto con le strutture più profonde della propria voce, del proprio corpo e della propria Essenza come un’unità inscindibile con il Divino.

L’attrazione che il canto gregoriano continua ad esercitare, anche presso i giovani, nonostante tutte le umiliazioni a cui è stato sottoposto nei secoli, nasce certamente dalla natura numinosa che esso racchiude, nascosta nei suoi apparentemente tortuosi meandri. L’aspirazione dell’uomo, di ogni uomo, verso il trascendentale, trova nel canto gregoriano una risonanza immediata, anche se non appariscente, rumorosa o oggettivabile. I ricorrenti successi nelle vendite di CD di canto gregoriano o l’accorrere del pubblico ai concerti, o la frequenza con cui vengono visitati i (purtroppo pochi) monasteri dove ancora si canta tutto l’Ufficio in canto gregoriano, o l’elevato numero di persone che frequentano corsi di canto gregoriano, non sono che un segno che la ‘restaurazione’ del canto gregoriano non ha bisogno di attendere mutamenti ufficiali esterni, ma è viva e presente nel cuore degli uomini.

Dopo tutte le domande esposte e le molte riflessioni che vi seguirono, trascorsi un periodo piuttosto lungo di alcuni anni senza più praticare personalmente il canto gregoriano, ed in generale tutto il repertorio medievale, dedicandomi più in profondità alla ricerca del suono e alla pedagogia. Ma quel seme gettato continuava intanto a lavorare a mia insaputa, e quando due anni fa circa ripresi in mano dopo tanto tempo il Graduale Triplex, le melodie gregoriane mi si ripresentarono sotto una veste completamente nuova. Per la prima volta vivevo l’esecuzione del canto gregoriano con un senso di totale libertà dal controllo semiologico, dalla fissità del suono fondamentale e, soprattutto nella salmodia, dalla dominanza opprimente degli organi della cavità orale nell’articolazione del testo. Il suono, che nel frattempo avevo pazientemente coltivato, si incontrava con le melodie gregoriane e con le funzioni vocali in un’alchimia completamente nuova. Non sapevo ancora dove questa scoperta mi avrebbe condotto, ma, unita alla consapevolezza che andavo maturando in quei tempi, della necessità che la voce recuperasse l’antico aspetto rituale, incominciai a dedicare al canto gregoriano alcuni momenti regolari di ogni giornata, dandomi almeno un anno di tempo per farmi ulteriori domande o ‘tirare delle conclusioni’. Ora che di anni ne sono passati più di due e il rituale quotidiano è diventato irrinunciabile, scopro che nel tempo si sono svelati molti aspetti nascosti del canto gregoriano che sento ora il desiderio di condividere con quanti saranno giunti a leggere questo scritto fin qui, nella consapevolezza che quello che intravedo e di cui scrivo è solo uno spiraglio.

Le radici del canto gregoriano sono radici di preghiera, intesa non come invocazione o richiesta, ma come primario bisogno dell’uomo di dialogare con Dio, di sentirne ed evocarne la presenza. L’affermazione di S.Agostino “Cantare è pregare due volte” è una perfetta sintesi dell’intensità che la preghiera raggiunge attraverso il canto. Storicamente le origini del canto gregoriano vengono fatte risalire ai riti in uso nella Sinagoga ebraica, in particolar modo alla salmodia e alla cantillazione dei testi sacri. Certamente le origini affondano ancora più lontano nella notte dei tempi dell’umanità, in una forma primitiva di comunicazione vocalica dei propri bisogni e dei propri stati, in cui il confine tra voce cantata e voce parlata non era ancora stato tracciato, confine che è presumibile sia emerso un po’ alla volta come distinzione tra la comunicazione sociale ordinaria tra individui, quindi il piano comunicativo orizzontale, e la comunicazione straordinaria cultuale con il divino, quindi il piano comunicativo verticale.

Mentre nel piano comunicativo tra individui le consonanti hanno incominciato ad assumere un ruolo sempre più rilevante, spezzando la continuità della vibrazione vocalica presente nella cantillazione e interrompendo il flusso sonoro, trasformandosi dunque in voce parlata, nella comunicazione con il divino il piano vocalico, con la sua vibrazione regolare, continua e sonora, è rimasto presente, probabilmente intensificandosi e unendosi alla oscillazione completa non solo delle corde vocali, ma anche di tutto il corpo del ‘cantante’, con quelle caratteristiche che si trovano spesso descritte nei testi antichi: possenza, fragore, rimbombo, unite alla delicatezza di una vibrazione dolce e fine. La modulazione dell’altezza tonale seguiva le variazioni degli stati e dei contenuti comunicativi, libera da vincoli preordinati o da strutture rigide. La qualità del suono e le variazioni di intensità erano il vero mezzo di comunicazione, a cui si subordinavano gli elementi ritmici e melodici che da esso sgorgavano.

Il formarsi un po’ alla volta di ‘testi rituali’ introdusse elementi ritmici e prosodici esterni indipendenti dall’originale complessa qualità del suono, col quale convissero comunque probabilmente a lungo, se fino ad un secolo fa gli oratori rituali e i sacerdoti di tutte le religioni potevano far affidamento solo sulle proprie qualità vocali e su un’acustica ambientale possibilmente favorevole per farsi sentire in luoghi anche molto vasti e da un numero molto elevato di persone (il pulpito del predicatore, il canto del muezzin, gli anfiteatri greci, ecc.).

La salmodia, così come la recitazione cantata dei mantra o dei versetti del Corano, sono forme, giunte fino a noi, dell’intensità che la preghiera può assumere attraverso il canto. Hanno tutte in comune:

  • la presenza di una ‘corda di recita’, ossia di un’altezza tonale attorno a cui la voce oscilla nel canto
  • la libertà ritmica, che viene loro conferita dal ritmo delle parole e dalla pulsazione regolare del suono vocale, non da un ritmo misurato preordinato a cui sottomettersi.

Nel canto gregoriano l’oscillazione tonale intorno ad un’unica nota lascia un po’ alla volta spazio al comparire di una seconda corda di recita che si alterna alla prima e che assume gradualmente la funzione di secondo polo d’attrazione, quello che nella musica tonale diventerà poi la funzione della ‘dominante’. I moti dell’anima che prega si esprimeranno gradualmente tramite modulazioni melodiche e melismi sempre più ricchi, che raggiungeranno il loro apice negli jubili. La pulsazione regolare spontaneamente presente in ogni voce che canta e che non ne impedisca la presenza (un vibrato a circa 5 Hz) verrà amplificata dalla presenza delle ‘ripercussioni’. Le variazioni dinamiche corrispondenti alla diversa intensità che la preghiera assume nei vari momenti trovano nella dilatazione dei neumi gregoriani il loro segno espressivo. Le liquescenze diventano il mezzo attraverso il quale l’energia luminosa del suono entra nella parola e nella melodia legandole in un’unità. È dal suono, dal canto e dalla salmodia che dobbiamo quindi partire per ritrovare quel contatto con la musica la cui perdita provoca tanta sofferenza, non solo nel musicista.

Il canto gregoriano si offre dunque come uno strumento potente per un percorso stimolativo nei confronti dell’esecuzione musicale, vocale e strumentale, indipendentemente dal genere che poi si intenda praticare. È un mezzo privilegiato di educazione anche per la voce dell’attore, che, a fianco del musicista, riveste ancora oggi il ruolo di intermediario tra l’Io e l’Altro da sé, quasi assumendo nelle recite teatrali una funzione sacerdotale sacra. La voce dell’attore ricorda la funzione della voce oracolare: un ponte tra l’umano e il divino.

Vediamo più compiutamente i diversi aspetti che caratterizzano il canto gregoriano alla luce della loro valenza pedagogica:

  • La pratica della cantillazione, della salmodia e del recto tono, sottomettendo l’articolazione del testo ad un’unica nota ed alla qualità di un unico suono, permette di riavvicinarsi al “cantare recitando” invece che sottomettere il canto alla parola e finire per “recitare cantando”. Non è un caso che il periodo storico in cui il recitar cantando fu assunto a forma artistica sancì la fine dell’egemonia del canto sacro e rituale e ufficializzò il diffondersi del canto profano e d’intrattenimento, dividendo ufficialmente il repertorio musicale in profano, con la nascita del melodramma, e in sacro, con la nascita degli oratori. Tornando al canto gregoriano, il lungo salmodiare su un’unica nota costringe gli organi articolatori a ridurre i loro movimenti, a minimizzarli, lasciando scivolare lentamente la vibrazione nella qualità ronzante e ininterrotta della brillantezza. La pratica della salmodia si pone come ponte tra la voce parlata nella quotidianità e la voce cantata.
  • I testi provengono quasi tutti dai salmi: sono immagini dal forte potere evocativo e sensoriale, dilatate e intensificate dalla presenza del suono e della melodia. Le loro immagini si offrono come potenti stimolatori del suono vocale.
  • L’ambito tonale del canto gregoriano è flessibile, la nota di partenza indicata non è prefissata ad un’altezza tonale definita, ma esprime solamente un rapporto modale all’interno del brano. È possibile per il cantore trovare liberamente la propria nota di partenza in modo da collocare l’intero brano all’interno della propria tessitura vocale più comoda.
  • Il canto gregoriano è un canto per l’oriente e per l’occidente, è un punto d’incontro tra l’antico e il moderno. Libero dalla tonalità, in esso è compresa tutta la musica, quella modale e quella atonale, quella araba e quella indiana.
  • Nella monodia del canto gregoriano vi è solo consonanza. L’elettricità prodotta dalla dissonanza gli è estranea.
  • L’estensione dei brani gregoriani, soprattutto di quelli più arcaici, è ridotta, quasi sempre contenuta entro un’ottava, in un ambito cioè in cui la voce umana può esprimere il massimo delle proprie potenzialità con la maggiore comodità, e dove è possibile ad un gran numero di persone il cantare senza dover mettere in atto delle compensazioni vocali. I brani che hanno un’estensione più ampia sono anche quelli dove viene prevista la presenza di un solista, di una persona che ha cioè sviluppato la propria funzione vocale al di sopra della media.
  • L’assenza nel canto gregoriano di un tempo binario o ternario scandito da un tactus implacabile, bensì un tempo libero in cui il ritmo è vario, fluido, flessibile, che lascia il suono libero di dispiegarsi, indugiare o scivolare veloce. Se la parola è un importante fattore ritmico nella salmodia e in quasi tutti i Communio, nella quasi totalità degli altri brani gregoriani è la parola stessa che si sottomette al ritmo interno al suono e al ritmo interno al corpo di chi canta, lasciandosi dilatare e frammentare e affidando al suono stesso il proprio messaggio.
  • Il sottomettersi della parola al suono e alla voce diventa evidente negli jubili: la parola esprime il moto interno all’anima e unendosi ad esso risuona in melodie che non esprimono altro che l’esuberanza del moto interiore. Senza contatto con questo moto interno esse perdono parte della loro forza espressiva e inaridiscono il suono riducendolo ad un puro esercizio ginnico del suono fondamentale.
  • Analogamente, anche tutte le articolazioni e figure melodiche che si sono mano a mano sviluppate a partire dalla corda di recita non sono altro che il divenire modulazione sonora dei moti emozionali dell’anima nel contatto con la parola sacra e con il divino.
  • Nel canto gregoriano, nella monodia/polifonia medievale e in buona parte della musica sacra rinascimentale (soprattutto in G.P. da Palestrina) è di fatto assente il moto emozionale che conosciamo nella musica tonale, con il suo continuo alternarsi di stati di tensione-distensione su cui si costruiscono la melodia e l’armonia post-rinascimentali. Nel gregoriano regna uno stato dell’Essere ed un oscillare intorno a quello stato, ma non vi è la violenza dei moti emozionali delle epoche successive, nemmeno negli jubili.
  • La libertà del canto gregoriano di seguire i moti interni dell’anima innamorata di Dio lo libera dall’aria, dal fraseggio, dal respiro obbligato. La parola è libera di soffermarsi a lungo su una sillaba o libera di scivolare velocemente su quelle successive. Il canto gregoriano è libero dallo spingersi in avanti sulla linea del tempo, ma ora si sofferma e gusta, ed ora è agile e scorrevole. Le articolazioni neumatiche diventano il mezzo attraverso il quale il tempo scandisce costantemente il suo stare in equilibrio tra il prima e il dopo. Luigi Agustoni le descriveva come “punti cardine, che ricevono l’energia e la trasmettono”.
  • Nell’antica notazione neumatica il segno, nonostante non riesca ad esprimere compiutamente la ricchezza del suono vocale, ne mantiene tuttavia alcune tracce, quali la presenza di un suono pulsante nelle ripercussioni e la flessibilità delle variazioni dinamiche nella dilatazione dei neumi o nel loro alleggerirsi; episemi, segni e lettere aumentative o scorrevoli non hanno dunque solo un valore ritmico, ma anche sonoro.
  • La duplice notazione neumatica sangallese e metense, che ora concorda, ora esprime sfumature differenti, conferisce flessibilità e libertà all’esecuzione, che non è imprigionata nel rigore metronomico, ma neppure in quello semiologico.
  • La libertà del segno che ne deriva, ricco di sfumature inimmaginabili nella notazione musicale successiva e in quella contemporanea, eppure contemporaneamente estremamente sintetico, è dunque ben lontano dal voler creare un sistema esecutivo rigido e predeterminato, ma ricorda semplicemente all’esecutore la natura profonda, viva, vibrante e pulsante del suono da cui proviene e l’immagine della natura divina che in esso si rispecchia.
  • La libertà del segno dal rigore e dal determinismo assoluto ci ricorda anche 1) che le funzioni del suono e della musica provengono dall’emisfero destro del nostro cervello, dotato di maggiori connessioni nervose con gli strati cerebrali più profondi; 2) che è tramite il suono e la musica che l’uomo viveva anticamente la comunione con il divino (nell’emisfero destro si situava il centro delle “voci degli dèi”); 3) che nell’emisfero destro il suono e la musica vengono vissuti in maniera sintetica, non analitica e soprattutto non intellettuale; 4) che è all’unità, dunque, che l’uomo tende, e non alla scomposizione in particolari sempre più piccoli e precisi.
  • Il canto gregoriano non può prescindere dalla ricerca di diminuire la pressione all’interno del corpo e della mente; esso può accettarne la presenza così come si accetta la presenza del male innato nel mondo e nell’uomo, ma esso è costantemente teso a ridurlo e a trasformarne l’energia in bene. È la parola sacra che viene pronunciata che lo richiede e lo permette, e in ciò risiede il vero compito dell’esecutore, che non è un ‘interprete’ che le attribuisce un significato intellettuale o emotivo, ma si mette a disposizione come canale di trasformazione.
  • Il costante e ripetuto tendere dei neumi verso l’ultima nota del neuma stesso toglie peso e pressione all’attacco del suono e al fluire melodico: è come sentirsi costantemente in un “levare” ritmico sospeso, in un fluttuare privi di peso che non ha necessità di dirigersi verso una meta, né di riposarsi dopo una tensione. È la natura del cantare stesso di poter diminuire il rapporto con la forza di gravità terrestre, a cui si aggiunge la forza di attrazione della gravità celeste (che si rivela nel quilisma).

“La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, dice il Signore: in essa tutti coloro che chiederanno riceveranno, coloro che cercheranno troveranno e a coloro che busseranno sarà aperto”

Mt 21,13 e Communio GT 402

Per chi canta è la laringe la casa del Signore; la laringe è una casa di preghiera: la sua vibrazione chiede e riceve, cerca e conosce, pulsa e si apre. Il canto gregoriano è preghiera, è rito, è quotidianità, è chiedere, è ricevere, è attesa priva di pretesa, è presente privo di aspettativa. Il canto gregoriano è anonimo, non è legato al nome e all’ego di un compositore. In esso ogni uomo può riconoscersi come se fosse la propria personale preghiera e in esso la comunicazione con il divino è diretta, priva di intermediazioni. Il canto gregoriano è un canto per l’anima, è un dono per l’umanità.

Il canto gregoriano